Nel Ventunesimo secolo ogni business riguarderà i dati.
Non tutte le aziende si rendono conto di questi… dati di fatto: Google lo sa, Facebook anche, e persino Tinder. Ogni casa farmaceutica ne è consapevole, e anche la grande distribuzione. Ma gli insegnanti conoscono il valore dei dati e le carriere che attendono i ragazzi che imparano l’importanza della loro analisi?

E i politici, in Italia, sanno che i dati sono il nuovo petrolio? Come durante la febbre dell’oro nell’Ottocento, non si arricchisce solo chi “scava” nei dati (data mining) ma anche chi fornisce gli “attrezzi” (tools) giusti per farlo. Il data scientist sarà il lavoro più gettonato del Ventunesimo secolo, ma gli insegnanti non lo sanno. Come le migliaia di posti di lavoro create in Irlanda dalle industrie digitali e biotecnologiche, molti dei lavori più in voga nel 2016 non erano considerati una professione un decennio fa. Bisogna rendersi conto che la velocità con cui si sta sviluppando l’industria digitale si sta lasciando alle spalle l’istruzione scolastica tradizionale. E di questo qualcuno ha dimenticato di avvertire gli insegnanti. Ci si è dimenticati dei professori, coloro che per definizione disseminano dati, coloro che per professione stimolano l’immaginazione dei ragazzi.

L’amara verità è che gli insegnanti vivono una realtà problematica. Nonostante per il triennio 2016-2018 siano oltre 90.000 i nuovi posti da docente che saranno coperti con i vincitori di concorso e attraverso le Graduatorie ad esaurimento residuali, sono ancora migliaia le cattedre ancora vacanti a tutt’oggi, soprattutto nelle regioni settentrionali.
A quanto pare gli insegnanti, ai quali chiediamo di far accendere la scintilla del genio nelle menti dei più giovani, iniziano le loro carriere già demoralizzati. Dovremmo spingere gli insegnanti a pensare fuori dagli schemi, e a interrogarsi sull’importanza dell’approccio data-driven, ma anche sui suoi risvolti negativi. Invece non valorizziamo gli educatori come dovremmo.
Confrontiamo la situazione del nostro Paese con quella della Finlandia, dove essere insegnante è paragonabile a essere un dottore o un avvocato. Gli insegnanti hanno i propri uffici, non seguono procedure di valutazione standard e non insegnano ai ragazzi un esercizio mnemonico, ma lavorano individualmente con loro per aiutarli a dare il meglio di sé e sviluppare la loro personalità.
Un altro esempio da citare è l’Irlanda, che ha avviato un’ampia riforma del sistema scolastico, che punta ad essere il migliore d’Europa entro il 2026. L’obiettivo è quello di dotarsi di una forza lavoro in grado di attrarre lavori ben remunerati. Che, facile previsione, saranno incentrati sui dati. Affinché i dati influenzino ogni aspetto della nostra vita nel Ventunesimo secolo, dobbiamo iniziare dagli insegnanti.

Anche l’industria gioca il suo ruolo. La sopravvivenza delle aziende dipenderà dalla propria capacità di reclutare talenti nell’ambito dei dati. Google, Accenture, Facebook, Amazon, IBM, Tableau, e altre decine di aziende il cui business dipende dall’analisi e la rielaborazione di dati digitali, sono costantemente impegnate a incoraggiare studenti e insegnanti a sviluppare le proprie abilità nell’approccio data-driven. Quasi ogni settimana queste aziende offrono opportunità di lavoro nel settore dell’analisi dei dati.

Questi numeri non sono paragonabili a quelli che si registrano in Italia, dove pure sembrano esserci segnali di interesse nei confronti del business legati ai dati. Una ricerca dell’Osservatorio Big Data Analytics & Business Intelligence della School Management del Politecnico di Milano attesta che nel 2015 il mercato degli Analytics ha raggiunto quota 790 milioni di euro, con un incremento del 14%. E se è vero che i Big Data rappresentano la fetta più piccola del business, è altrettanto vero che il loro tasso annuo di crescita si è attestato sul +34%. Assicurazioni, banche, telecomunicazioni, media, Grande Distribuzione Organizzata i settori maggiormente coinvolti da questa autentica rivoluzione.

Difficile dire se la crescita del business dei dati in Italia sia causa o effetto di un risveglio dell’interesse per il settore da parte del Ministero dell’Istruzione. Il Piano Nazionale Scuola Digitale punta ad accelerare la diffusione del pensiero computazionale e della programmazione. Le misure messe in campo nella Scuola Primaria consentiranno a un milione gli studenti di essere raggiunti quest’anno dalla copertura wifi di oltre 20mila plessi e di quasi 380mila ambienti scolastici, dall’istituzione di quasi 2mila laboratori creativi (atelier) con stampanti 3D e dalla digitalizzazione di 500 biblioteche scolastiche. E anche sui dati la scuola italiana cerca di stare al passo coi tempi. Verranno realizzati 25 percorsi didattici innovativi grazie all’Avviso pubblico in scadenza a novembre 2016. Il bando da 4,3 milioni di euro diffuso dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca prevede la produzione di indirizzi capaci di favorire lo sviluppo di competenze digitali e di accompagnare le attività di apprendimento degli studenti in maniera stimolante e attrattiva. Tra le aree tematiche previste spiccano lo STEM (sviluppo delle competenze digitali come robotica educativa, making e stampa 3D, Internet delle cose), big e open data, coding, economia e imprenditorialità digitale. Il tempo dirà se le misure hanno centrato il bersaglio.

Ogni business, oggi, è un business digitale. L’ambito dell’analisi dei dati sarà tra quelli più di valore. Abbiamo bisogno di persone che siano in grado di capire e seguire un approccio data-driven, che capiscano l’importanza dell’informazione contenuta nei dati, che li sappiano rielaborare. Questo indipendentemente dall’ambito di studio: sarà così nei settori scientifico, tecnico, o umanistico. Gli insegnanti sono figure fondamentali in questo processo. Abbiamo bisogno di insegnanti che conoscano l’ambito dell’analisi dei dati. Devono essere informati, ma prima ancora devono essere valorizzati.